A cura di Marta Elena Casanova
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Se oggi il calcio femminile in Italia è una realtà consolidata, con squadre professionistiche, copertura mediatica e campionati che stanno diventando sempre più competitivi, lo si deve anche a chi ha osato molto prima che fosse legittimo farlo. A chi ha messo i tacchetti sul fango quando il calcio per le donne era un tabù. Una di queste figure è Elena Schiavo, considerata una delle antesignane del movimento calcistico femminile nel nostro Paese. Eppure, il suo nome è ancora poco conosciuto al grande pubblico. Un’ingiustizia storica, se si pensa a quanto ha fatto negli anni Sessanta per portare il pallone anche ai piedi delle ragazze italiane.
Torinese, nata nel 1945, Elena Schiavo è stata una delle grandi protagoniste della primissima Nazionale femminile non ufficiale, nata in pieno clima di contestazione e rottura con l’establishment sportivo. Nel 1968, infatti, in un’Italia ancora rigidamente maschilista e conservatrice, Schiavo scese in campo a rappresentare un sogno più grande di lei: quello di una generazione di donne che voleva giocare, competere, vincere. Non per moda, non per provocazione, ma per quella cosa chiamata semplicemente passione. Quella stessa passione che l’aveva portata, ancora giovanissima, a sfidare i divieti e a infilare le scarpe da calcio. Fatto non di poco conto.
Capitano, leader, simbolo: il volto di un’epoca erroneamente mai raccontata
Nel 1969 Elena Schiavo diventò capitano della Nazionale italiana femminile che partecipò alla Coppa del Mondo non ufficiale organizzata in Messico. Fu una spedizione rocambolesca, autofinanziata, senza il supporto della FIGC o del CONI, ma con uno spirito da vera impresa sportiva. Le ragazze italiane non demorsero e arrivarono fino alla finale, davanti a 100.000 spettatori all’Azteca di Città del Messico, contro la Danimarca. Persero, ma entrarono nella leggenda. Nessun’ altra nazionale italiana , maschile o femminile, aveva mai raggiunto un simile traguardo fino ad allora in una competizione mondiale.
Schiavo è stata la voce e l’anima di quella squadra. In campo era una centrocampista di grande intelligenza tattica, fuori era la leader che tiene unite ragazze di ogni provenienza sociale, tutte accomunate dal desiderio di rompere lo schema. In un’intervista rilasciata anni dopo, dirà: «Ci prendevano in giro, ci guardavano con sufficienza. Ma noi volevamo solo giocare a calcio. E lo abbiamo fatto, contro tutto e tutti».
Il paradosso è che, nonostante la risonanza dell’evento, quella Nazionale è stata dimenticata dalla storia ufficiale. Nessun riconoscimento, nessuna medaglia, nessun posto nei libri scolastici o sportivi. Ma la loro presenza, con la guida di Elena Schiavo, è stata senza ombra di dubbio il primo vero segnale che il calcio femminile esisteva, e che sarebbe tornato. Così è stato, sino a quello che possiamo vedere oggi e speriamo ben oltre.
Il calcio femminile le deve molto (ma non lo sa)
Dopo il ritiro, Elena Schiavo è rimasta legata al mondo dello sport, ma senza però ricevere l’attenzione che certamente avrebbe meritato. Nessuna via intitolata, nessun documentario nazionale, nessuna menzione o celebrazione ufficiale per la prima capitana del calcio italiano al femminile. Eppure, ogni volta che oggi una bambina si iscrive a una scuola calcio, il suo gesto ha dentro un frammento di quella ribellione gentile e determinata che Schiavo ha rappresentato. È il classico caso di chi ha seminato in silenzio e ha visto fiorire un giardino che forse non potrà mai visitare davvero.
Raccontare la sua storia oggi non è solo un omaggio: è un’operazione culturale necessaria e doverosa. Perché non si può costruire alcun futuro, nemmeno quello di uno sport, se non si conoscono il passato e le fondamenta. E quelle fondamenta, in Italia, portano anche il nome di Elena Schiavo.
A cura di Marta Elena Casanova